olmis

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Sono nato curdo, a una data incerta, in un villaggio di montagna chiamato Kiter, nel punto d'incontro tra la Siria, l'Iran, l'Iraq e la Turchia, all'interno delle frontiere dello Stato turco, nel distretto di Beytssebab della provincia di Hakkâri.
Sono cresciuto scandendo ogni mattino all'aurora, nel corso di una cerimonia quasi militare, nel cortile della scuola elementare repubblicana di Hakkâri, "Sono turco, giusto, lavoratore" e "un Turco vale il mondo intero".
Quando ho preso coscienza del fatto che non ero un "Turco che vale il mondo intero", ho cominciato a interrogarmi sulla mia identità e sul senso della mia esistenza.


Su questo pianeta, divenuto piccolo come un chicco di grano, paragonato alle centinaia di miliardi di galassie che ci circondano, per questo essere vivente che è chiamato Uomo, che non riesce oggi a distinguere il bene dal male, il bello dal brutto, il bianco dal nero, su questa terra di Mesopotamia, che fu ai suoi tempi oggetto di speranza per l'umanità, ma sulla quale soffia ora un vento di polvere, e da cui si sprigiona un odore di sangue fresco, mentre i suoi alberi, i suoi fiori e la sua acqua vi sono ancora inestricabilmente legati, mentre la farfalla, il cane e il serpente si stringono amorosamente e liberamente, non sarebbe ora che il popolo curdo, come quello siriano, l'iraniano, l'iracheno o il turco, possa parlare la propria lingua, praticare la religione che preferisce, emanciparsi all'interno della propria cultura, e che questo mosaico di popoli si unisca in una danza ritmata dal suono dell'oboe e del tamburo gitano?
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