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Non siamo con quanti oggi ritengono che al dialetto s'addica, quasi esclusivamente, l'area dell'intimità lirica, quel "sospiroso" che, da Pascoli e dai Crepuscolari in giù, trova tra i Dialettali non pochi, fin troppo fervidi sostenitori.
Rimaniamo invece persuasi che la più alta destinazione del dialetto, ovvero la sua autenticità più smagliante, sia da rinvenire nella dimensione epica ed epico-narrativa che anche Pasolini finiva pur con l'ammettere includendo, nella sua Antologia dei Dialettali, un poeta come Delio Tessa, improponibile come "lirico squisito".
Quindi non scandalizzerà e non sarà meno poeta - si pensa - il Bartolini che, da Cansonetutis non poco lodate nella loro dolcezza e musicalità, dimentico di tali sue ascendenze d'aristocratico intimismo, oggi passa a misurarsi addirittura con Storie: quelle di filanda e di Caporetto o di Ottavio Bottecchia ciclista o degli odierni Supermercati del sabato. E che per farlo ricorre alla cjantade. Che non è solo, come il Pirona la definisce, "cantata, di solito in coro" (o come Tommaseo vorrebbe: "componimento da doversi o potersi cantare" più o meno a piena voce), ma è soprattutto racconto popolare in versi, drammatico o satirico o caricaturale o sentimentale. Nel quale è la coralità a prevalere con toni non certo in diminutivo o addirittura diminutivo-vezzegiativo (da cansonetute, appunto!), ma di canto "modulato a piena gola" in una felicità che, nel dire di sè, non può che esaltarsi di se stessa.
Niente allora le conviene quanto la densità non solo fonica, non solo semantica, materica addirittura, della parola friulana anche in una sua varietà di pianura - quella in Sinistra Tagliamento - che s'arrende volentieri, talvolta quasi compiaciuta (sabo per il più canonico sabide; pocio per pantàn; ghinaldo per bulo; ...), ad una sempre più prepotente infiltrazione veneta.

Circolo Culturale Menocchio
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