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Messaggero Veneto _ sabato 5 agosto 2017

Un libro per l'estate
Antieroi della Grande Guerra sulle montagne di De Infanti

di Luciano Santin

Due elementi rendono imperdibile "Gorizia è nostra" piccolo grande libro di Sergio De Infanti, recentemente ristampato dalle edizioni del Menocchio. Il primo è il centenario della Grande guerra, che dopo le mistificatorie glorificazioni di epoca fascista, a un secolo di distanza si scopre per quello che fu: un'insana e inutile carneficina.
La seconda è l'autenticità, caratteristica sempre più rara nei testi, i migliori dei quali sono così ben costruiti da poter sembrare autentici o credibili. Una qualità, questa che deriva direttamente dall'autore, l'alpinista-albergatore carnico Sergio De Infanti.
Si tratta della narrazione di una vicenda umana archetipica perché vera (e non l'inverso), e, insieme, della restituzione di un luogo e di un momento storico, così come l'autore li ha appresi "per li rami", attraverso memorie domestiche e di paese, che nel libro cambiano sostanzialmente solo di nome.
La collazione di oralità - sola ricchezza e sapienza dei sotàns - compone appunto un romanzo "di tradizione" nel senso etimologico di consegna ai posteri di una memoria sacra.
Vicenda comune e quasi banale quella di Antonio, valligiano della Carnia vissuto là dove l'ago della bussola lavorativa guardava a nord, ai todescs grazie ai quali ci si guadagnava il pane e dove all'improvviso questi ultimi diventano l'"odiato nemico" e l'Arbeitland un luogo da conquistare.
Come tanti, o forse tutti, i valligiani, il protagonista non comprende, ma subisce, veste la divisa grigioverde, combatte, ha la ventura di esser catturato.
Quattro anni perduti, di famiglie scomposte e ricomposte. Nella sua esistenza parallela, da prigioniero di guerra che non nutre né patisce ostilità Antonio si aggrappa a un amore passeggero, esattamente come farà la moglie.
Al di qua della linea inchiodata e sanguinosa che corre sulle creste del Coglians, del Cellon, dei Pal, la Carnia si adegua anch'essa a quella tragedia epocale che vede sfogare il suo peggio sul confine e sulle zone etnicamente miste. Assurge a epitome e genius loci la donna (non una novità legata alla guerra, ma storia antica, dai tempi dei cramâr), la vecchia matriarca che regge la casa con un'incrollabile volontà di vita.
Il saper cogliere la semplicità, elementare schiettezza della realtà, apparenta De Infanti a nomi più noti: la temperie e le scene che rimandano a Lussu e Rigoni Stern non rappresentano imprestiti, ma un modo di accordarsi, di intonarsi sulla storia dell'heimat. E, se vogliamo, l'antieroe Antonio può far pensare a personaggi che appartengono a mondi e stili diversi (si potrebbe azzardare un inconsapevole, lontano imparentamento con Svevo?).
Pagine che profumano di fieno e di stallatico, di neve, di cordite, di polvere sulla strada. Pagine che raccontano senza impancarsi in giudizi morali, perché l'autore contempla il fluire della vita acriticamente, con quel tanto di simpatia umana che gli viene dal sapersene parte.
Il titolo, frase finale del libro, è geniale. I nomi di Trieste e Trento erano stati spacciati per giustificare o santificare la guerra. Gorizia, invece, era ignota. Ma Cadorna dopo le immense perdite delle offensive dell'Isonzo deve portare un bilancio all'apparenza attivo. E viene coniato lo slogan che inneggia alla presa del capoluogo isontino, in sé poco significativa.
Al suo ritorno in paese Antonio trova la famiglia riunita attorno al tavolo, in silenzio. Tutti aspettano da lui la parola che offra una spiegazione, un senso agli anni di assenza e di sofferenze. Lui indugia, non sa trovarla. Alla fine si rifugia nel più vieto luogo comune della propaganda guerrafondaia, che svela, oltre i dolori, i danni e i lutti la totale, insanabile follia della guerra.
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